Il mestiere del barman non è solo una questione di miscelare liquori e creare cocktail perfetti. È un’arte che si fonda sull’interazione umana, sulla capacità di ascoltare e di comunicare con il cliente. Questo racconto è tratto dalle esperienze di un giovane quindicenne.Ci sono mestieri che non si scelgono, ma che sembrano quasi chiamarti, come se fossero scritti nel tuo destino. La storia che vi racconto oggi riguarda un giovane che, a soli quattordici anni, ha intrapreso un viaggio straordinario nel mondo del bartending, tra alti e bassi, sfide e soddisfazioni, fino a diventare un professionista stimato. È una storia di passione, determinazione e voglia di imparare. Peppino Manzi decise di abbandonare l’apprendistato da elettricista per dedicarsi completamente a questo mestiere che sentiva suo.

Tutto ebbe inizio al “Dancing Giardino D’Inverno”, un noto e prestigioso locale da ballo di Cervia, dove il giovane Peppino mosse i suoi primi passi nel mondo del lavoro al bar.
La scelta di ambienti di qualità fu cruciale per la sua formazione professionale, poiché gli permise di apprendere preziosi insegnamenti che avrebbero plasmato il suo futuro.
Qui, tra caffè e drink serviti con entusiasmo, il giovane fu notato da Silverio Fontana, il gestore del Dancing Fontana di Cervia. Una figura importante per lui, non solo perché gli offrì la possibilità di lavorare nella sua brigata, ma anche perché questo locale aveva un legame speciale con la sua famiglia: suo padre, un cameriere stimato e amato dai clienti, aveva lavorato lì per molte stagioni prima di lasciare il mondo prematuramente.

“Lavorare al “Dancing Fontana” non fu facile: le serate erano lunghe e faticose, spesso si finiva alle prime luci dell’alba senza giorni di riposo settimanale. Ma c’era una ricompensa: uno stipendio quattro volte superiore a quello che percepivo come apprendista elettricista e, soprattutto, il calore umano che rendeva tutto più sopportabile.
La moglie del gestore, Angiulina, gli raccontava spesso aneddoti su suo padre, descrivendolo come una persona allegra e brillante, capace di conquistare i clienti con la sua simpatia. Questi racconti gli davano forza e lo motivavano a seguire le orme paterne“.
Dopo le prime esperienze di lavoro al “Dancing Giardino D’Inverno”, al “Dancing Fontana” e in altri locali della zona, puntando sempre a scegliere gli ambienti migliori e più prestigiosi per recepire preziosi insegnamenti utili alla formazione professionale di base, ebbe la possibilità di lavorare al bar di un locale di grande struttura: il famoso notturno alla Terza Traversa di Milano Marittima, il “Woodpecker Night Club”. Il direttore del Dancing Giardino D’Inverno, Lucio Giunchi, che era anche direttore di sala del Night Club Woodpecker di Milano Marittima, aveva il compito di formare la brigata stagionale del Woodpecker. La stagione, nel 1955, durava solo 55/60 giorni e il cuore della stagione, quando c’era la miglior clientela, lo portò con sé per fare il commis di bar. Questa occasione rappresentò un momento cruciale per il suo apprendistato.
Peppino, al Woodpecker, ebbe la fortuna di lavorare accanto a Bruno Bianchi, un barman esperto con un passato al prestigioso “Caffè Pasticceria Majani” di Bologna. Fu proprio Bruno a introdurlo all’arte della cocktelleria, ma ciò che il ragazzo apprese andava ben oltre la tecnica. Bruno Bianchi era una figura carismatica, capace di creare un legame speciale con i clienti che si avvicinavano al banco bar. Non si trattava solo di servire drink: Bruno sapeva ascoltare e intervenire nelle conversazioni con discrezione e intelligenza, senza mai sovrastare il cliente. Era un maestro nell’arte della comunicazione, capace di mettere a proprio agio chiunque si trovasse davanti a lui.
Osservando il comportamento del suo maestro, Peppino imparò a superare la propria innata timidezza. Prima ancora di padroneggiare la miscelazione dei liquori, comprese l’importanza fondamentale dell’ascolto e della comunicazione nel mestiere del barman.
Questa lezione si rivelò cruciale per il suo sviluppo personale e professionale. Il rapporto umano con i clienti divenne il fulcro del suo lavoro, un elemento che avrebbe definito la sua carriera negli anni a venire.

“Qualche stagione dopo, in occasione di un gentile complimento che gli fece il Dott. Amelio De Maria, proprietario e gestore del locale, riguardo al suo buon lavoro, Peppino disse: “Dottore, io sono un po’ limitato perché non ho una lunga preparazione culturale scolastica”. E il Dottore gli rispose con enfasi: “Ma Peppino, tu sei ancora giovane, ma sai ascoltare, e a volte ciò vale più di parlare”. Questo apprezzamento diede molto valore e una nuova forza alla sua personalità e lo spinse a valorizzare ulteriormente la capacità di relazionarsi con gli altri.”
Il racconto mette in luce un aspetto spesso sottovalutato del mestiere del barman: l’importanza dell’interazione umana. Servire un drink è solo una parte del lavoro; ciò che rende speciale questa professione è la capacità di creare un ambiente accogliente e di instaurare un rapporto autentico con i clienti.
L’ascolto attivo, la discrezione e l’empatia sono qualità che non si imparano sui libri ma che si sviluppano attraverso l’esperienza e l’osservazione. Il giovane protagonista del racconto ci insegna che queste doti possono fare la differenza, trasformando un semplice lavoro in una vera e propria arte.
La storia di questo giovane barman è un esempio illuminante di come le esperienze personali possano plasmare una carriera e arricchire una vita. L’incontro con figure carismatiche come Bruno Bianchi e il riconoscimento da parte del Dottor Amelio De Maria hanno giocato un ruolo fondamentale nel suo percorso professionale e umano.
Questa storia ci ricorda l’importanza di fermarci ad ascoltare, di coltivare le relazioni umane e di valorizzare le qualità personali che ci rendono unici. Perché, come ci insegna il Dottor De Maria, saper ascoltare vale spesso più che saper parlare.
In un mondo che sembra andare sempre più di corsa, spesso ci dimentichiamo di fermarci per valorizzare quei momenti semplici che ci distinguono e ci arricchiscono. È proprio in questo spirito che si colloca la storia di Peppino Manzi aspirante barman: un racconto che intreccia dedizione, passione.

“Il lavoro al bar del Woodpecker era piacevole, benché impegnativo, diventava un’esperienza unica grazie al clima di spensierata collaborazione tra noi giovani membri dello staff. C’era una sintonia autentica che rendeva i compiti più gravosi momenti di crescita reciproca e conviviale condivisione”. dice Peppino Manzi.
Il lavoro era quello che ogni giovane dovrebbe affrontare per conseguire la “gavetta” al bar. Ogni pomeriggio era dedicato ai preparativi: la mise en place del bar costituiva un elemento cruciale per affrontare la frenetica serata che ci attendeva, il quale in poche ore dovevamo soddisfare le richieste di centinaia di avventori: Il ghiaccio arrivava a bordo di un furgone refrigerato sotto forma di stecche (grandi blocchi), che dovevamo spezzare e ridurre in frammenti manualmente, col furone a pugno dovevamo spezzare in piccoli tocchi per l’uso nel bar e poi oltre ai pezzi lo tritavamo per riempire una larga vasca inserita nel banco bar per immergervi i bicchieri per garantirne la costante freschezza, sempre ghiacciati prima di essere riempiti. Una pratica che rimase impressa nella mia memoria, una tecnica che mi sono sempre portato avanti nei vari banchi bar della mia carriera; e divenne un punto fermo nel lavoro del bar”.
“Un’altra fase cruciale era la preparazione dei pre-mix: decine di litri di cocktail assemblati in anticipo per permetterne il servizio rapido durante la serata. Si preparavano: 30 litri di Negroni, 30 litri di Gin Fizz con limone fresco e filtrato, poi si preparava 25 litri di Alexander: Crema Cacao Button e brandy “Tenerelli”, una rimanenza di Brandy che riempiva la cantina dopo ad una serata spettacolo organizzata dalla Peziol produttrice del Brandy e del famoso Cynar, poi la panna veniva aggiunta al momento di dover servire il cocktail.
Riempivamo gli shaker secondo ordinazione, mettevamo il ghiaccio e il cameriere andava in sala al tavolo con i bicchieri vuoti, shakerava lungamente e versava la miscela nei bicchieri davanti al cliente. Non erano molte le ricette cocktail richieste a quei tempi, quelli erano gli unici cocktail richiesti.
“C’era anche spazio per la creatività: quella parentesi in cui potevamo dare libero sfogo alla sperimentazione. Un’ispirazione per tutti noi giovani era il barman Bruno, il cui talento si traduceva in ricette personali destinate ai clienti con richieste particolari. Spinto da quell’atmosfera di grande inventiva, mi cimentai nel realizzare il mio primo cocktail: una miscela originale di Gin, Vermouth Bianco, e qualche goccia di Anisette Marie Blizzard e di Piper Mint Verde. Si trattava di un azzardo, forse, ma il risultato mi regalò uno straordinario senso di appagamento. Forse una miscela un po’ dolce, ma da considerare che a quei tempi si facevano anche qualche Martini Cocktail, composti da: 50% di vermouth Bianco e 50% di Gin, quello era il Martini conosciuto a quei tempi.
Il bar non mancava mai di stupire con gli ordini più curiosi: c’erano gli avventori tedeschi, innamorati del vino “Lacrima Christy spumante”, secco oppure dolce, imbottigliato a San. Marino, servito ben gelato in eleganti bottiglie a forma di grappolo d’uva, era un gran buon bere per loro. Ogni serata si trasformava in un vortice di velocità, maestria tecnica e relazione con i clienti: preparare un cocktail non era soltanto un processo tecnico, ma anche un’opportunità per entrare in sintonia con le persone e creare un’atmosfera preziosa”.
“Tuttavia, non era tutto rose e fiori. Ricordo un episodio piuttosto negativo in quel periodo: un barman, apparentemente impeccabile, che prestava servizio all’Americanbar della piccola capannina inserita nella vicina alla pista da ballo, si rivelò avere il vizio delle “mani leste”. Gli incassi serali, nelle sue mani, mancavano sempre curiosamente di una parte, come si dice “ci faceva la cresta”. La direzione, appurato con certezza i continui ammanchi di fine serata, alla fine non vi fu altra scelta che licenziarlo, con il bar rimasto inaspettatamente senza il barman.
Il posto di barman rimaneva così vacante in piena stagione, difficile trovare un successivo rimpiazzo. E così che al mio capo barman Bruno ebbe un’idea che avrebbe alterato il corso della mia vita. Mi offrì di rilevare il banco lasciato vacante in quel rinomato spazio, dedicato esclusivamente ai cocktail e ai distillati pregiati. Avevo appena sedici anni, ma accettai la sfida con entusiasmo, Fu quel momento a rappresentare una svolta per me. Fu l’avvio alla mia definitiva carriera di barman, iniziai il mio percorso formativo accompagnato dalle competenze racchiuse in un libricino di ricette, consegnatomi dal maître Sergio Liparini: un uomo dalla grande competenza e con esperienze all’estero”.
Nel mondo della ristorazione, ogni giornata porta con sé una nuova sfida, un nuovo incontro e, talvolta, qualche episodio che si potrebbe definire… singolare. Lavorare al banco di un bar non è solo una questione di tecnica e professionalità, ma anche di saper gestire con prontezza situazioni impreviste che spesso strappano un sorriso o lasciano perplessi. Oggi voglio raccontare un paio di episodi che mi sono rimasti impressi durante i miei primi passi in questo affascinante mestiere”.
“Oltre alle cose serie da apprendere in questo mestiere ci sono anche le cose buffe da affrontare: era una sera tranquilla, l’orchestra suonava una musica dolce che riempiva l’atmosfera del locale. Io indossavo la mia divisa fornita dalla casa: una giacca rosa con bordini gialli, elegante e un po’ eccentrica. Non mi preoccupavo minimamente di cosa potesse pensare la gente al riguardo della mia tendenza sessuale; per me era parte del lavoro e, a dire il vero, mi piaceva.

Mentre sistemavo il banco, si avvicinò un uomo alto e robusto, con una barba folta che incorniciava un viso serio. Con voce sorprendentemente melliflua mi fece una richiesta che non avevo mai sentito prima: “Barman, mi fai una spremuta di finocchio?”. Rimasi interdetto. Spremuta di finocchio? Mai sentita! Cercai di mantenere la calma e con spirito di prontezza risposi con un sorriso incerto: “Mi dispiace, ma in questo bar non facciamo spremute. Può provare al bar principale”.
Pensavo che la questione fosse chiusa lì, ma lui non sembrava affatto intenzionato a mollare la presa. Con tono scherzoso – almeno spero – mi rispose: “Cattivo! Se non mi accontenti ti batto con un fil di lana, toh… toh”. Io non sapevo se ridere o preoccuparmi. abbozzai un sorriso incerto, guardai il mio interlocutore cercando di capire se stesse scherzando o fosse serio e mi chiedevo: ma quello scherza o ci fa. Ancora oggi mi domando quale fosse la sua intenzione. Quello fu uno dei primi episodi che mi insegnarono a gestire situazioni imprevedibili con un pizzico di ironia e tanta pazienza.
E chissà quante altre storie buffe e memorabili mi aspettano dietro il banco!”

“Lavorare in un bar significa accogliere persone di ogni tipo, ognuna con le sue particolarità e le sue richieste. Alcuni clienti ti lasciano ricordi divertenti, altri ti mettono alla prova con sfide inaspettate. Ma alla fine della giornata, ogni esperienza contribuisce a formarti come professionista e come persona”.
“Un’altra serata memorabile fu quella in cui il proprietario del locale arrivò al banco accompagnato da Nunzio Filogamo, figura molto nota nel panorama radio-televisivo dell’epoca. Per me, giovane barman alle prime armi, era un momento importante: dovevo dimostrare di essere all’altezza della situazione.
Filogamo si avvicinò al banco con fare cordiale e mi disse: “ho bevuto Champagne fino ad ora, ma ora vorrei qualcosa di diverso”. Senza esitazione gli proposi un Cocktail Champagne, una variante raffinata che avrebbe mantenuto il tema del suo drink preferito ma con un tocco originale. Lui accettò con entusiasmo e io mi misi subito all’opera.

Mentre preparavo il cocktail, sentivo gli occhi del proprietario del locale e quelli di Filogamo puntati su di me. Era come essere sotto i riflettori, un piccolo test di abilità e sicurezza. Con precisione e cura completai il drink e lo servii con un sorriso. Filogamo lo assaggiò e fece un cenno soddisfatto al suo accompagnatore. In quel momento capii che avevo fatto centro.
Erano prove di capacità d’applicazione del sapere ospitare e lasciare il segno, stavo imparando facendo “la giusta gavetta”.
“Questi episodi sono solo alcune delle tante storie che hanno segnato i miei primi anni dietro il banco. Ogni giorno era una lezione: imparavo non solo a preparare cocktail perfetti o a gestire le richieste dei clienti, ma anche a navigare tra momenti buffi e situazioni impreviste. La gavetta è fatta così: ti insegna a essere pronto a tutto e a trovare il lato positivo anche nelle circostanze più strane”.

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